Il corpo seduto con le gambe che possono stare nella posizione incrociata sul pavimento, oppure con i piedi ben piantati a terra se siamo seduti sulla sedia.
L’importanza centrale e’ avere la schiena diritta, eretta ma non rigida.
La nuca in linea con la spina dorsale.
Per facilitare questo il mento puo’ stare leggermente rientrato.
Gli occhi possono stare chiusi, a meno che non siamo gia’ addestrati a tenerli semichiusi, che guardano ad un metro in avanti.
Le mani poggiate sulle gambe, oppure raccolte l’una dentro l’altra: la posizione tradizionale prevede la mano destra che raccoglie la mano sinistra ed i due pollici che si toccano a formare un anello oblungo.
Sentiamo la consapevolezza del corpo seduto, della postura del corpo seduto. Questa postura che, insieme seduta ed eretta, e’ umile, ben piantata ed a contatto con la terra, ma allo stesso momento dignitosa, con quella dignita’ dell’essere umano, non dell’IO-MIO.
Cosi’, aperti all’attenzione, al corpo cosi’ com’e’ adesso, rivolgiamo l’attenzione al processo della respirazione, seguendola al naso, oppure all’addome, oppure nel punto dove ci sembra particolarmente vivida, senza cambiare in continuazione, ma seguendola laddove essa ci sembra piu’ presente.
Una volta scelta un’area, qualunque essa sia, perduriamoci.
Contatto con la nuda sensazione della inspirazione.
Contatto con la nuda sensazione della espirazione.
Se siamo con l’attenzione al naso osserviamo quando il respiro batte sulle narici, sul labbro superiore. Se per qualcuno le sensazioni potranno essere molte, per altri possono essere poche: va benissimo in entrambe i casi.
Se siamo con l’attenzione all’addome osserviamo quando questo si dilata e quando si contrae.
Impariamo ad utilizzare queste sensazioni come appigli per allenare la consapevolezza.
La espirazione puo’ essere piu’ lunga della inspirazione: non c’e’ problema in quanto tutto varia, come anche il respiro. Quindi in un altro momento sara’ il contrario.
Attivare la consapevolezza significa sentire, respiro dopo respiro, queste variazioni.
La mente interviene, commenta, oppure divaga pensando ad altre cose; questo e’ perfettamente normale. Appena ce ne accorgiamo con gentilezza ritorniamo a sentire il respiro; non ad immaginare, non a pensare al respiro. In presa diretta con esso, in esperienza diretta, non mediato dalle parole, dalle immagini, non giudicato continuamente. Questo puo’ succedere se siamo condizionati, perche’ siamo abituati a guardare ai fatti giudicandoli.
Allenando cosi’ la capacita’ di raccoglimento o calma concentrata si allena anche la pazienza, la equanimita’; queste sono delle virtu’ centrali per definire una vita migliore.
A volte, in dipendenza delle condizioni, l’esperienza del respiro puo’ essere piacevole, rilassante; altre volte, in dipendenza di altre condizioni, puo’ essere arida, poco piacevole e per niente rilassante.
Dal punto di vista della pratica di consapevolezza entrambe sono delle ottime situazioni per la pratica stessa.
Nel primo caso impariamo a rapportarci con l’equanimita’ ad una sensazione piacevole; nel secondo caso, per certi aspetti ancora piu’ importante, impariamo a rapportarci con equanimita’ ad una sensazione spiacevole.
Questo e’ profondamente diverso che rapportarsi alla situazione piacevole con attaccamento e rapportarsi alla situazione spiacevole secondo avversione, che e’ il nostro modo abituale carico di sofferenza.
Questo si impara piano piano. Ecco perche’ occorre una pratica, ed ecco perche’ la pratica prende tempo e non ha il tempo che vogliamo noi, ma il tempo giusto che serve.
Non dobbiamo dimostrare niente a nessuno. La pratica non e’ una prova di bravura: ma noi possiamo trasformarla in una prova di bravura attaccandoci alla situazione del successo oppure deprimendoci, frustrandoci, perche’, magari, non riusciamo a catturare il respiro con la mente. Quando si inizia e’ naturale che questo succeda e come spesso si dice “gli inizi della pratica sono inizi lunghi”.
Dobbiamo imparare a riconoscere questa trappola. La consegna della pratica e’ di unirsi consapevolmente con il respiro, con “questo respiro”.
Ora che ci siamo ricordati che la nostra fantasticheria e’ finita, ora che ci siamo risvegliati, catturiamo l’attenzione per questo respiro, per questa inspirazione, per questa espirazione.
La respirazione che abbiamo mancato e’ storia passata finita per sempre.
Le respirazioni che ci promettiamo di prendere non esistono.
La respirazione attuale e’ l’unica che e’ sperimentabile consapevolmente.
Non dobbiamo accumulare respirazioni fatte e da fare; neanche disegnare tabelle del tipo di respirazioni che verranno.
Questo non e’ imparare a stare nel presente, ma e’ riportare nella meditazione quella mentalita’ che ci procura molta sofferenza, perche’ e’ una mentalita’ che vuole controllare l’esistenza nostra e degli altri; si chiama tormento, oppressione, e nella lingua pali si dice dukka cioe’ sofferenza.
Il pericolo e’ di usare nella meditazione, l’attenzione al respiro, il controllo di tutto cio’ che succede, tormentandoci delle divagazioni, opprimendo il libero fluire dell’aria nel naso, nell’addome.
Accorgersi del pericolo e’ fondamentale. Bisogna lasciare questa presa convulsa di controllo e stare semplicemente con l’esperienza del respiro cosi’ come e’, ogni volta che ce ne ricordiamo.
Si puo’ ottenere facendo il “giusto sforzo” senza il quale non si va avanti.
C’e’ molta enfasi sull’aggettivo “giusto” perche’ spesso c’e’ uno sforzo sbagliato: l’attivita’ mentale ambiziosa, controllante, paurosa, giudicante, comparante, viene riportata dentro l’attenzione al respiro, dentro alla pratica.
E’ una ottima cartina al tornasole, perche’ piu’ la si vede e piu’ comprendiamo come agisce in tutta la nostra vita.
E’ una delle tante bellezze della pratica.
Se non abbiamo ancora varato una pratica formale quotidiana, diamoci tempo aggiungendo di volta in volta un po’ di tempo: cosi’ si va avanti con piccole promesse realistiche.
Se ci si trova male con un minimo di 20 minuti quotidiani consigliato, non decidete di applicare una forzatura sul tempo, ma praticate il tempo che si sente: il tempo stesso si dilatera’ con il tempo.
Non abbiate paura di essere sperimentali, di fare piccole variazioni. Non siamo abituati a questo tipo di attivita. Bisogna avere il coraggio e la pazienza di ripartire dall’inizio molte volte, senza arrivare alla conclusione di smettere dopo molti tentativi andati male: non viviamo in un tipo di cultura che ci sostiene, anzi molto spesso ci sentiamo contro corrente.
E’ facile perdersi e riperdersi, ma se ogni volta ci rialziamo allora diamo forza a quell’altra parte di noi che vuole praticare, che vuole alimentare la fiducia, la costanza, la pazienza; e cosi’ ci abituiamo al giusto sforzo nel demolire la frustrazione che, alle volte con l’abitudine, ci puo’ sembrare familiare.
questo ho ascoltato dal Maestro Corrado Pensa
Ogni bene, Osvaldo Sudhammo