La relazione con la pratica

Con il tempo la pratica diventa sempre di piu’ una cosa noastra; non e’ piu’ una novita’, non piu’ un problema, non piu’ un corpo estraneo; diventa invece di piu’ una parte di noi.

C’e’ un qualcosa di meno appariscente, sempre meno appariscente, e sempre piu’ defilato, umile, discreto.

Da problema, entusiasmo, da novita’ squillante si sta trasformando e ci accompagna; diventa supporto: da cosa speciale, seriosa diventa una tranquilla cosa seria, una cosa che serve, una cosa buona, una cosa che con il tempo he passa ci appare sempre meno facoltativa e sempre piu’ facente corpo con noi.

Questo significa che si e’ trasformata da attivita’ aggiunta alle altre della giornata, in attivita’ organica. Ci si pone sempre di meno davanti alla domanda se e’ meglio vivere praticando oppure rinunciarci. Man mano che apprendiamo il modo giusto di essere, di porci, l’atteggiamento giusto nei confronti della vita, quella domanda che era ovvia all’inizio si presenta sempre meno: e’ chiaro che l’interesse e’ di continuare a sviluppare quaesto atteggiamento giusto. Sarebbe come aver trovato un cibo giusto, nutriente e domandarsi se digiunare o mangiare quel cibo: prima che eravamo barcollanti nella scelta ci ponevamo seriamente davanti a questa alternativa. L’alternativa riprende la mano: la distrazione, il vivere a caso, riprendono la mano in quanto hanno il loro potere, ma oggi ci crediamo di meno, il che significa che preferiamo – sempre di piu’ e sempre piu’ naturalemnte – essere presenti. Veniamo trascinati via, ma tutte le volte che ci risvegliamo al presente, alle cose presenti, alla consapevolezza, ci sentiamo a casa. E quando non ci stiamo ci sentiamo estranei.

Quella artificiosita’ che puo’ essere evocata all’inizio del percorso meditativo, a questo punto e’ definitivamente tramontata. Ci accorgiamo che l’essere presenti, che l’essere consapevoli, ci porta a capire e ad entrare in contatto. Forse prima di iniziare questa esperienza di contatto vivo e diretto merce’ la consapevolezza, pensavamo che l’unica forma di attivita’ nobile fosse pensare e ripensare e rupensare ancora: ci ripromettevamo la soluzione dei problemi da una sufficiente quantita’ di pensieri. Adesso – nonostante il grande rispetto per il pensiero ed il pensare – cominciamo a vedere che capire e intuire non e’ pensare; un pensare che viene a servizio dell’intuizione e della comprensione e’ un pensare che ci aiuta, ma un pensare compulsivo, selvaggio in realta’ oscura la comprensione, l’intuizione di quello che conta, di quello che e’ giusto. Possiamo essere molto abituati “al pensare per pensare”, all’accumulare parole, frsi, immagini, e non sentire piu’ il peso di questo accumulo continuo, l’accumulo della proliferazione.

La consapevolezza e’ un grande vettore di semplificazione, ma e’ umile; non e’ vistosa nei suoi effetti, e’ molto semplice e semplificante e procede in punta di piedi, il che significa che man mano che acquisiamo semplicita’ non ce ne accorgiamo nemmeno di questa acquisizione.

Il richiamo della consapevolezza, della pratica, del Dharma e’ anch’esso un richiamo gentile defilato, umile: non e’ un richiamo di un colore forte, di una voce forte, di un suono forte, di qualcosa di affascinante, luminescente, ma semplice, tranquilla, intima: quindi chiama in questo modo, essenziale, semplice, caldo, non clamoroso, non vistoso.

C’e’ una parte di noi che e’ abituata al vistoso, al clamoroso, all’affascinante e quindi dipendente – in quanto assuefatta – da queste sensazioni e non recettiva, resistente alla semplicita’, alla essenzialita’, al tranquillo, al silenzioso.

Quando cominciamo a praticare sentiamo di aver scoperto una “cosa” di cui vogliamo appropriarci; la vogliamo mostrare a noi stessi cosi’ come la volgiamo mostrare agli altri, la vogliamo possedere, portare.

Ma la pratica non e’ una cosa, non si vede, non ha forma ne colore.

E’ molto a portata di mano e al tempo stesso e’ distante perche’ l’essere presenti e consapevoli e’ molto vicino, intimo, ma basta una preoccupazione, una serie di pensieri che, a poco a poco si offusca, diventa lontana; al limite ci chiediamo di come facevamo prima ad essere prensenti, interi, vigili, svegli, ma poi ridiventa vicina.

Il merito di queste grandi tradizioni – quale la tradizione buddhista della meditazione di consapevolezza – e’ che ci portano lungo i secoli l’esperienza ed il convincimento che questa dimensione senza forma ne colore – la pratica – puo’ essere addestrata, coltivata: possiamo seminare la consapevolezza e questa fiorisce e frutta, per poi seminare di nuovo. Sentire la vita che comincia ad avere un nuovo significato di fondo, non rappresentato da un gruppo di idee, di progetti; va oltre.

Le giornate che incontriamo, e che si susseguono l’una dopo l’altra, ci suscitano contenuti mentali, ci suscitano reazioni positive o negative, piacevoli o spiacevoli; ma mano mano che ci addentriamo nel cammino le giornate ci portano un’altra possibilita’, cioe’ la possibilita’ della consapevolezza e della pratica. Qualcosa che e’ capace di guardare tutti i contenuti, come se, fino ad un certo punto noi pensavamo che ci fossero solo i pensieri, le emozioni, le immagini, le reazioni; percorrendo in cammino della pratica, invece, ci rendiamo conto di queste altre possibilita’. Il prossimo momento oltre a portarmi il tale ricordo, mi porta la possibilita’ di essere presente al ricordo, al respiro, di essere… semplicemente… presente e basta.

Non solo ogni giorno, ma ogni momento diventa portatore di questa nuova possibilita’; a volte ci sfugge, altre volte invece la cogliamo. Questo fiore nuovo, che prima non avevamo notato, diventa sempre piu’ importante.

Avrete notato che ci pacifica l’incontro sempre piu’ ravvicinato con la consapevolezza, ci rende meno desiderosi di questo, di quello o di quell’altro; questa fame di emozioni quali che esse siano, anche molto penose come la ricerca di film forti, la ricerac di qualcosa di emotivamente forte che ci fornisca qualche forma di pienezza ci fa dirigere l’attenzione in quella direzione; ovviamente e’ una parte che ci delude, e sentiamo quindi il bisogno di una dose piu’ forte di quella emozione.

La direzione della pratica, della presenza nel presente, dello stare con quello che c’e’ e’ molto diversa; una differenza fondamentale e’ l’effetto pacificante anziche’ agitante. Se siamo pacificati non andiamo alla ricerca di emozioni forti, in quanto abbiamo qualcosa di evidente valore maggiore.

Si tratta di stabilire una relazione con la pratica.

E’ questo, per l’esattezza, che nutre; una relazione non e’ una disciplina militaresca, ma e’ semplicemente una relazione. C’e’ un qualcosa di intimo e nutriente, di familiare che ci accompagna e con la quale siamo in relazione. Ci rapportiamo, evochiamo, ricordiamo della pratica; questa e’ una relazione.

In certi momenti sentiamo la gratitudine di questa relazione; sentiamo di esserci imbattuti in un privilegio, di non esserci lasciati sfuggire questa “cosa” tramandata nei secoli, sperimentata, verificata, rinsaldata, che ci e’ capitata e la abbiamo incontrata: chiede solo di essere curata, accudita, tramandata tranquillamente e umilmente.

E’ esperienza di molti meditanti sentire un netto cambiamento in termini di non solitudine non isolamento; eppure la pratica non e’ una persona, ma come si diceva, e’ una relazione, e’ divenuta un calore. Facilita la capacita’ di entrare in contatto con altri, perche’ e’ un calore sussistente, in quanto non esiste sotto condizione di esistenza di latre cose, ma essa stessa sostiene, ci fa sentire meno soli anche se siamo soli. Meno soli anche stando in compagnia; c’e’ tanta solitudine sociale, tanta solitudine in compagnia con altre persone.

L’impressione e’ di sviluppare qualcosa di fondamentale anche se non ha ne forma ne colore, eppure riscalda, ci e’ vicina, ci sostiene…

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